
La Thuile
Agricoltura intrepida
I ripidi versanti, molto più del clima ostile, hanno reso l’agricoltura in montagna una sfida continua e La Thuile si trova in una posizione non facilissima da questo punto di vista: per coltivare è stato necessario nei secoli passati intervenire terrazzando i pendii.
Solo ottenendo piccoli appezzamenti pianeggianti sorretti da muretti a secco in pietra è stato possibile coltivare cereali e ortaggi. Il lavoro era immane e sfiancante, senza alcun mezzo meccanico. Il terreno andava ripulito, dissodato e portato in piano con la costruzione di muri di sostegno quindi, spianato, arato e coltivato.
Ancora oggi si possono notare i resti di questi muri a secco, capolavori solidi e durevoli realizzati con pietre locali senza uso di malta e altri leganti.
A corredo dei terrazzamenti il panorama attorno al villaggio era inverdito da prati per il foraggio. Era proprio attorno all’allevamento bovino che ruotava l’intera vita delle famiglie contadine. La doppia mungitura quotidiana, la cura della stalla in inverno e delle bovine al pascolo nelle altre stagioni occupava le giornate di ogni membro della famiglia e in estate il lavoro comprendeva anche la fienagione.
L’erba dei prati doveva essere tagliata, fatta seccare al sole, raccolta e portata al riparo in modo da essere a disposizione delle mucche in stalla durante l’inverno.
Anche fare i fieni era un lavoro impegnativo, le superfici sono ampie e irregolari e il lavoro si faceva esclusivamente a mano o al massimo con il mulo per il trasporto.

Affinché l’era crescesse in quantità anche nei periodi più caldi e nei prati più secchi si irrigavano i prati per scorrimento sfruttando una rete di canali irrigui che venivano deviati con paratoie per portare acqua ai vari appezzamenti.
Ancora oggi i prati vengono irrigati ma con moderni irrigatori a pioggia e falciati (con mezzi motorizzati) per fare la scorta di fieno. Il colpo d’occhio sul prato di Arly e sul Mont du Parc ci mostra ancora queste antiche attività umane: prati falciati di fresco in luglio, quando la meteo promette giorni di sole caldo, l’erba a terra a seccare, famiglie intere armate di rastrelli e oggi i trattori con l’imballatrice al posto del mulo. Un occhio più attento noterà anche i resti di questi muri a secco, capolavori solidi e durevoli che neppure il tempo sa cancellare.
Lascia correre lo sguardo in ogni direzione. Prati, boschi, la massa brillante del ghiacciaio del Rutor, le spumeggianti cascate che donano acqua alla valle disegnando lo sfondo del villaggio con le sue case unite fra loro in un abbraccio che dava forza e che oggi ha il sapore della resilienza montanara, della capacità di creare per vivere e tramandare i saperi per mantenerli vivi.

Acqua e rus
Pioggia e neve non erano sufficienti a far crescere i campi, gli alberi da frutto e l’erba al massimo delle loro possibilità. Fu chiaro che era necessario creare una rete di canali irrigui da utilizzare durante la stagione più secca per far giungere l’acqua anche nelle zone più distanti dai torrenti.
Opere ingegnose, capillari e talvolta complesse che ancora oggi funzionano (in parte intubati e in parte ancora originali) percorrevano in lievissima pendenza distanze anche importanti per condurre l’acqua delle due Dore, del Ruitor e del Verney fino ai campi.
Bovine alpine, fiere e atletiche
In stalla in inverno, nei pascoli di fondovalle in primavera ed autunno e in alpeggio in alta quota in estate, le mucche valdostane devono avere il fisico giusto!
Tre sono le razze bovine autoctone in Valle d’Aosta: pezzata rossa (la rodze), pezzata nera (la nèye) e castana (che in realtà ha un manto nero uniforme). Sono animali rustici e di taglia contenuta, agili, adatti alla montagna e ai pascoli d’alta montagna. Altri segni particolari sono l’elevata attitudine riproduttiva e la longevità. Vengono allevate per la produzione del latte ma anche per la carne.

La pezzata nera e la castana hanno un carattere vivace e battagliero e ogni primavera si sfidano in duelli per stabilire la gerarchia all’interno della mandria. E’ così che nasce la tradizione delle Batailles de Reines, diffusa in tutta la regione. Il momento culminate si svolge ad Aosta a metà ottobre ma durante tutta l’estate le bovine si affrontano in diverse competizioni. Una di queste si svolge in occasione della Fête des Bergers al colle del Piccolo San Bernardo, rievocando il momento in cui un tempo i pastori valdostani e savoiardi per lo scambio ed il mercato del bestiame si incontravano dopo i mesi invernali in cui il colle non era transitabile. Il pomeriggio è dedicato dalla “Bataille de Reines”, che assegna il titolo di “Regina del Piccolo San Bernardo” alla bovina che si dimostra più fiera e coraggiosa in scontri incruenti che vengono vinti anche solo con uno sguardo o una mossa che denotano la superiorità dell’una sull’alta.
Le mucche venivano munte a mano 2 volte al giorno e il latte veniva usato fresco ma soprattutto trasformato in burro e formaggi, veri capisaldi della dieta contadina. A fine carriera l’animale era macellato.
La carne era consumata raramente, nei giorni di festa e soprattutto in inverno. La macellazione avveniva in autunno inoltrato quando le condizioni climatiche erano più favorevoli. Dell’animale si usava tutto, sangue, interiora, ossa, zampe comprese. Gran parte della carne veniva conservata sotto sale e trasformata in salumi e insaccati.
In estate le mucche vengono radunate in grandi mandrie e portate in quota a brucare l’erba e i fiori di montagna. Il latte delle mungiture estive è molto aromatico ed è l’ingrediente unico della Fontina d’Alpeggio le cui caratteristiche organolettiche rimandano direttamente ai fiori dei prati alpini.
La vita in alpeggio è ancora come una volta. Le casupole degli arpian sono spartane e gli orari sono dettati dalle esigenze di mungitura e pascolo delle bovine. Ogni alpeggio ha una casera e una crotta dove poter lavorare il latte appena munto e dove stagionare le forme di formaggio.
Dal latte al formaggio
La caseificazione era, ed è ancora oggi, un processo che richiedeva esperienza e gesti precisi: il latte (intero o privato della parte grassa) veniva scaldato un po’ sul fuoco per portarlo alla giusta temperatura, poi addizionato a caglio, un enzima presente naturalmente nello stomaco dei vitelli, che porta alla coagulazione delle proteine. Dopo un tempo di attesa si mescola per rompere la cagliata in piccoli pezzi per separarla dal siero e si scalda ancora.
La massa cagliata viene quindi prelevata dal calderone con teli appositi, messa nelle forme a scolare quindi preparata per il consumo come prodotto fresco o stagionato. Ogni formaggio ha una ricetta precisa che mette alla prova la bravura del casaro!
Il burro era fondamentale e si otteneva lavorando la panna o il siero residuo della lavorazione dei formaggi. Si usava la zangola, un cilindro in legno con il fondo chiuso e un coperchio forato dotato di stantuffo che muove all’interno un disco di legno che agita il contenuto. Sbattendo energicamente per 40-50 minuti il grasso si concentra in palline grandi quanto un chicco di mais, separandosi dal latticello.
Ogni famiglia contrassegnava il proprio burro con una forma o un marchio personale. Usavano palette da burro intagliate per stampare fiori, animali, iniziali, segni distintivi oppure scatole rettangolari che davano la forma al panetto e contemporaneamente imprimevano un disegno.
Ghiacci perenni e acqua potente
Il ghiacciaio del Rutor, il terzo per estensione della Valle d’Aosta, con la sua forma larga e massiccia luccica di riflessi azzurri alle prime luci del giorno o di magnifiche tonalità più calde alla sera. Sotto di lui scende a valle un potente torrente affrontando il dislivello in tre salti di roccia che originano altrettante cascate.
Erano proprio che sue acque a rappresentare una fonte idrica fondamentale per il villaggio.
La massa di ghiaccio che si estendeva tra i 2500 m e i 3350 m di quota si è ritirata in modo significativo negli ultimi decenni e analizzando immagini scattate nel tempo e dati storici sull’andamento delle stagioni, delle temperature e delle nevicate si scopre che i suoi ghiacci sono arretrati e avanzati a più riprese negli anni. Il fronte glaciale avanzò specialmente fra il 1564/65 fino alla metà dell’800 in corrispondenza della Piccola Età Glaciale che interruppe l’optimun climatico d’epoca feudale in cui le temperature erano più alte.
Quando il ghiacciaio era in espansione la lingua di ghiaccio si allungava fino a chiudere lo sbocco del valloncello di Usselettes (alla sua testa si trova l’attuale rifugio Deffeyes) dove, a una quota di 2400 m, si formava un lago di sbarramento in cui si raccoglievano milioni di metri cubi d’acqua. Quando il lago raggiungeva il massimo invaso al suo limite occidentale si formava uno spesso muro di ghiaccio su qui l’acqua di fusione premeva con forza provocandone il cedimento. Le acque si riversavano con forza inaudita verso valle provocando allagamenti e alluvioni fino a Morgex.
Questi eventi catastrofici si verificavano più volte tra il 17° e il 19° sec (1594, il 1595, il 1640 e il 1646).
Il lago venne denominato di Santa Margherita a motivo della cappella votiva eretta presso le sue sponde nel 1607. Ogni anno il 20 luglio si saliva in processione alla cappella per esorcizzare gli eventi disastrosi che dal lago partivano.
Le cascate rutorine:La tua missione di scoperta della forza della natura
Dal ghiacciaio del Rutor si origina la Dora del Rutor, torrente che si esibisce in 3 potenti cascate (a 2030, 1850 e 1700 metri di quota da cui l’acqua precipita per ben 400 metri totali regalando uno spettacolo dall’intensità impagabile. In corrispondenza del terzo salto d’acqua questo spettacolo della natura si può osservare dal ponte in ferro costruito nel 2014 per celebrare il 150° anniversario della nascita delle cascate.
Lo stimolo a scoprirle coglie già solo ammirandone da lontano la potenza e la spumeggiante acqua che contrasta con il verde del bosco. La passeggiata che le raggiunge tutte e tre in sequenza ricalca i passi dell’Abate Chanoux grande conoscitore delle montagne valdostane del XVIII secolo che per primo le chiamò “rutorine” e delle guide turistiche della fine del XIX secolo già accompagnavano i turisti a visitarle, mentre i più avventurosi affrontavano con le guide alpine la salita alla testa del Rutor (m 3486 che si trova già nell’adiacente Valgrisenche) che fu conquistata per la prima volta nel 1862 dagli inglesi Matthews e Bonney, in compagnia della guida di Chamonix M. Croz.